giovedì 26 maggio 2016


IPSIA MARMO



RIFLESSIONI SULLA SCULTURA, NON DISSIMILI RISPETTO AD ALTRE SPECIALIZZAZIONI PRESENTI NEL PROGRAMMA SCOLASTICO.



La scuola del marmo, dalla sua antica atipicità ( di arti e mestieri ) ad oggi, dovrebbe aver smarrito qualcosa della sua ricchezza originaria, se le iscrizioni scolastiche registrano preoccupanti abbandoni. Ricordiamo un consiglio datato ma attuale: “Quando personalità, società od istituzioni, soffrono un periodo di crisi, occorre che ritornino ai loro sani principi, a quel periodo aureo originario di manifesta affermazione e radicamento. Ovviamente, nella loro realtà territoriale come nel sentire della gente”. Si è valorizzato moltissimo il ruolo dell'Istituto Professionale ( unico al mondo ), poiché oltre a dare una buona istruzione di base, formava i futuri mestieranti, garantendogli un posto di lavoro gratificante. Ciò rispetto allo sviluppo produttivo di Carrara ed alla sua secolare tradizione. Rispetto a ieri, verso quali indirizzi sociali ed occupazionali è orientata oggi la Scuola? Garantisce una formazione didattica e professionale qualificata? L'aver conseguito il titolo di studio, secondo i programmi dati, significa che si è fornito allo studente tutti i mezzi per poter operare nel mondo del lavoro? Il post tirocinio dovrà solo affinare quelle capacità già in essere, che sono la riproduzione di opere, vari elaborati, o copie artistiche. Oppure è l'abbandono di tutto questo, nella evasiva scansione del solo “mestiere”, meccanicamente e genericamente inteso; che sottende, semplicemente, ad una aspettativa funzionale per un impiego qualsiasi, facendo valere, un diploma di Stato, quale viatico per sfruttare tutte le opportunità date. È pur vero che il “mercato” ha cambiato molte cose nell'universo del marmo, epperò è vera anche un'altra cosa, l'amore per la materia marmo, la passione per la scultura, se uno non c'è l'ha non è che se la può dare, o inventare, seduta stante.

Ripensare alla nostra storia, a quella della Scuola del Marmo, alla dedizione di intere generazioni di famiglie carraresi vissuta dentro il patrimonio di laboratori e botteghe; reinterpretare il tema studio-lavoro alla luce delle nuove realtà, con un serio impegno di tutti, allievi e insegnanti per carpire, oggi, quelle abilità e sensibilità artistico/artigianali che, ieri, quei mestieranti seppero darci. È indubbio che il matrimonio con i laboratori va consumato, in itinere, con fedeltà e dedizione, adeguando il programma di studio e le strutture scolastiche a tale componimento. Altrimenti, la tradizione che contiene, e ancora conserva in sé, un indubbio valore segnico, di sensibilità e modi di rappresentare le cose – patrimonio nella memoria storica di ogni Laboratorio – e come esse hanno caratterizzato la produzione donandogli quell'impronta singolare che è nel nostro DNA. Quindi sono nulli contributi e diplomi, a spaglio; mentre possono germogliare alcune iniziative e pulsioni che individuano, nell'antica filiera, i suoi punti di forza. Istruzione e mestieri possono compenetrarsi: l'unicità di tutto questo, è portare la fabbrica nella scuola, consapevoli di operare nel contesto di un territorio ricco di imprese e con una pesante storia sulle spalle. Ma di tutto questo nessuno si rende conto, così come non esiste una regia, un collegamento efficace tra le varie realtà; eppure il termine “ far sistema “ , vacuo quanto mai, continua, di bocca in bocca, il suo giro trionfale tra simposi, seminari ed altro ancora.

Indichiamo un programma minimo, per attualizzare e pubblicizzare il ruolo del IPSIA nel contesto della realtà sociale ed economica della città. Se si va al cuore del problema , non si può non rilevare la endemica scarsità di adesioni da parte dei giovani. E' il sintomo di legittime aspettativa non soddisfatte? Siano esse occupazionali o deludenti nelle molteplici aspirazioni individuali ed artistiche.

Detto programma può riprendere l'iniziale filiera del mestiere della scultura, partendo da alcune iniziative elementari. Fuori programma, ma degno di futura considerazione, il disegno di figura ed anche di progettazione, con corsi adeguati: il disegno di figura utilissimo allo scolpire; il progetto, per impostare e preventivare un lavoro. Non sottovalutare le vecchie tecniche magistrali nell'arte del levare. Altresì Prevediamo di utilizzare il contributo di figure esterne, artigiani e mestieranti, per mutuarne le esperienze migliori.





TECNICHE DI RIFINITURA E DI RISCATTO



      Importantissima per una perfetta esecuzione dell'opera, la rifinitura è un tantino in ombra rispetto alle precedenti fasi di lavorazione. Gli studenti riescono, anche i meno bravi, a portare a termine la fase di smodellatura; ma non sempre terminano l'opera in maniera soddisfacente. Viene così mortificata una specificità del marmo: quella di essere ben impastato, levigato e/o lucidato in stadi diversi ( a seconda che si voglia maggior opacità o lucentezza ); o quella di esaltare ora i chiari ora gli scuri; ora le linee od una maggiore plasticità, a seconda della lavorazione. Così come nel disegno, pittura e architettura, anche nella scultura è importante la pelle o la texture voluta, effettuata dai passaggi con subbia, gradine, scalpello, smerigli ecc.. Il non finito può esservi compreso dall'esecutore, secondo i suoi intendimenti artistici. Non dobbiamo aver timore nel documentare, tutti i passaggi, tutte le tecniche che abbiamo adottate nel nostro lavoro, mutuando anche quelle degli altri. I nostri predecessori hanno imparato osservando i maestri lavorare e memorizzando così il “mestiere”introiettato dentro di sé. Con questa modesta iniziativa auspichiamo maggiore attenzione da parte della città e delle sue istituzioni; è il nostro messaggio che non demorde, sulla prestigio ed originalità della scuola del marmo. Non secondario è l'intento di stimolare adesioni e contributi. Ripensare all'aiuto pubblico e come rivolgersi ad uno dei tanti santi presenti nel calendario. Gli imprenditori se desiderano onorare il loro status e far profitti dovrebbero investire nell'artigianato e nelle scuole professionali, un tandem che va strutturato con adeguati investimenti. Ignorare questo tema come altri, non solo è sintomo di bieco egoismo, ma non evita prevedibili danni e avversioni incontrollate, quando, disoccupazione, nuove povertà, danni ambientali, non sono più sopportabili. E non sarà più evitabile un doveroso eccesso di “statalismo” che colpirà la manfrina sorniona in essere. E allora qualcuno si ricorderà della Sovranità Costituzionale e degli art. 41-42-43: “l'attività non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.. ..a fini dell'utilità generale la legge può...trasferire...mediante espropriazione... a Enti Pubblici …”. Questi dettati ci dicono che la proprietà è prima di tutto pubblica. Certo, non sono atti di manifesta libertà, ma nulla potrà mai sorprenderci in questa orda di statalismo rampante, e neppure un vandalismo conforme alla devastazione dei nostri monti, con tutto quello che ne consegue.









SCUOLA DEL MARMO E IL BAUHAUS.



L'attuale IPSIA è coetanea del Bauhaus (1919-1923), concepita prima nasce nel 1923, è la scuola “Industriale di Arti e Mestieri”. Hanno uno scopo quasi analogo, riferito all'inserimento dell'artigiano o dell'artista nel mondo della produzione. Il Bauhaus (letteralmente casa dell'architetto), è anche “il più importante movimento artistico fra le due guerre, che si coagula attorno alla scuola detta Bauhaus, fondata a Dresda nel 1919.” “Il lavoro quindi teorico e pratico è finalizzato alla produzione cosicché dalla vendita si potesse ricavare almeno un parziale autofinanziamento utilizzato per le sperimentazioni...” Uno dei punti fondamentali del Bauhaus è l'annullamento della distinzione fra artista ed artigiano...” dopo diverse peripezie e trasferimenti, salito al potere Hitler, nel 33, il movimento, accusato di bolscevismo fu sciolto. La Scuola del Marmo che non ha vocazioni ed aspirazioni minori, è considerata dal “fascismo” come “il tempio dell'arte e del lavoro, la differenza con il Nazismo è abissale. Questo tempio dell'arte non era poca cosa, possedeva aule museali e di vendita, refettori, un salone per la cultura. Si presentava come un ateneo. Ad essa si iscrivevano centinaia di studenti, e prima della costruzione di questo edificio, intorno al 1930, era ospitata nei fondi della Dogali, al Saffi e negli studi Quaglino; alcuni locali furono rilevati anche nel palazzo del littorio (convitto ex Gil). Il progetto lo realizzò l'architetto Egidio Galeotti insegnante della scuola stessa. L'inaugurazione e la posa in opera della prima pietra, nel 1927, vide la presenza di numerose autorità nazionali e locali. L'On. Renato Ricci, con calce e cazzuola mura la prima pietra. Mentre ad ottobre in sede di bilancio comunale – sindaco Ing. Canesi – è stanziata la somma di un milione e mezzo, per il palazzo della scuola che avrà sede in via Pietro tacca. Istituto Professionale Per l'Industria e l'Artigianato del Marmo ha un passato prestigioso; è parte integrante della cultura Carrarina. È disdicevole cancellarlo per un pugno di scaglie. Perciò auspichiamoci che dopo tanto Far West, ci si aggiorni con un bel Mezzogiorno di Fuoco.

L'apuano il giovane.


sabato 14 maggio 2016


UNA VOCE DALLA TRAVIATA: O CARRARA O CARA NOI LASCEREMO, LA VITA UNITI TRASCORREREMO,...

UN GRANDE AMORE, DEI CITTADINI, VERSO LA PROPRIA CITTA' - AVVERSATO DA SIGNOROTTI E BARONETTI DI RANGO... E DA BINDA, CON CARICO DI VARIA SERVITU'.

Lo è fin dalla retorica D'Annunziana, DELLE CITTA' DEL SILENZIO su Carrara: “Ma su quante città regnano i belli/ eroi nati dal grembo dei tuoi monti!” E permangono tombali silenzi, a fronte di una tradizione ricca di orgoglio e di avvenimenti che, di “occupazione” e di capitali-investimenti, avèa eletto a proprio monumento. (1) Quel marmo “materiale accademico e reazionario, secondo gli artisti di avanguardia”...”Quando Arturo Martini era sceso a Carrara, prevenuto nei confronti delle troppe sculture in marmo, giudicò, oltre le opere fredde e brutte dell'arte, quelle di una uniformità artistica e commerciale anonima. Sicuro che il suo lavoro ne avrebbe subito la stessa sorte. Ma presto si ricredette; a tal punto che elevò gli operai ad “autentici stradivari”. (2) Con Martini si realizzarono nuove formule espressive “che, rispetto alle tecniche tradizionali risultavano come dei paradossi: un opera, portata avanti fino alla lucidatura, veniva percossa con l'abbozzatore sulla superficie”. Oppure, “il Maestro chiedeva di tirar giù quella testa con una martellata (è la donna che nuota sotto l'acqua), con grave disappunto dei mestieranti”. In compenso, Martini futurista lo fu davvero: in un suo commento “già prevedeva la fine della scultura astratta e la ripresa del figurativo, con il ritorno ai contenuti”. Alla gente “piase sentirse contar delle storie”, disse in dialetto Trevigiano.

È il ritorno alla preminenza del segno - “nei suoi principali aspetti organizzativi e sostanziali del significante” -, quale espressione di un linguaggio chiaro e funzionale alla sua modellizzazione, che è affine alle affettuosità del marmo, altresì idonea a raccoglierne il messaggio estetico. Perciò quello che ancora rimane del patrimonio delle tecniche, del “mestiere della scultura”, [visibile ancora in molte delle opere cittadine], va' recuperato: quelle tracce dei ferri, quel colorismo, quell'impasto particolare, è prezioso, perché è ricchezza non solo percepita, ma il reale che ne promuove altra: solo tale ricchezza incentiva i profitti ed un indotto qualificato. A tal proposito alcune osservazioni su due artisti della seconda metà dell'ottocento, Rodin e Boccioni. Il primo, vicino agli impressionisti, legato all'eroismo e alla monumentalità, “nell'approccio alla scultura invitava a considerare i volumi delle poche forme geometriche del lavoro (sintesi), che vanno al di là del singolo piano (verità cubica)”. Boccioni, “la continuità nello spazio e il dinamismo; l'importanza data al vuoto con l'abolizione della linea finita, e della statua chiusa”. Ebbene, SATRE CONDANNAVA queste innovazioni. “Le statue classiche tradizionali – affermava – vi gettano negli occhi la loro eternità. Ma l'eternità e sinonimo di inerzia; è UN ETERNO ORA. L'auspicio a Carrara, di VIOLETTA E ALFREDO, si chiude così: “de' corsi affanni compenso avrai, la tua salute rifiorirà...

Note (1) Scultura a Carrara Ottocento.

(2) L'uomo di marmo.

L'Apuano il Giovane.



SCULTURA: LA POETICA, LE TECNICHE, IL PUNTO DI VISTA.





Ragioniamo su alcune osservazioni, allorquando un artista si accinge a rappresentare un'idea. Si da' per certo che si vuol realizzare ciò che si è già concepito nella mente: ossia l'oggetto preciso della nostra immaginazione.

La differenza sostanziale tra opere fatte e finite è tra la freschezza dell'una, nell'esprimere di getto l'idea originale, e un'altra troppo cincischiata e leccata, che può soddisfare l'occhio, essendo di grande pulimento, ma alla fin fine inespressiva.

Naturalmente, non vi è contrasto con l'adoperarsi a perfezionare il massimo di carica espressiva: sì, è giusto che l'idea sia fatta crescere, maturare, e precisata ulteriormente con uno studio appropriato. Poniamo di assumere il tema del rapporto uomo – ambiente, uomo soggetto e/o protagonista; come realizziamo o consideriamo lo spazio in cui collocare tale figura? La pittura e l'architettura possono far ricorso alla prospettiva lineare dandovi profondità ed indicando spazi e oggetti umanizzati. Lo scultore lavora sul pieno e sul volume, non sul vuoto dello spazio. Ripetiamolo, per esso, fin dalla sbozzatura più che nella smodellatura, esiste il valore espressivo ed estetico della geometria, utile per meglio orientare l'opera. Già qui comincia a rendersi conto del volume, dei contorni e delle masse ( sporgenze e rientranze ); per mezzo delle quali, con lo scolpire per piani degradanti, si precisano meglio l'andamento degli assi ( orizzontali, verticali, obliqui ) che determinano il ritmo della composizione. Sono gli assi che suggeriscono la direzione dei piani da fissare con l'ausilio del trasporto dei “punti” nelle varie fasi della lavorazione. Viceversa nell'intaglio diretto è la buona conoscenza del disegno e lo studio accurato in tutte le sue parti dell'opera, che guida la mano dello scultore, anche attraverso varie simulazioni di un modellino in creta. Ci si riferisce, a mo' d'esempio, all'arte dei grandi: ( Donatello, San Giovanni Evangelista, Firenze ) - “ l'Apostolo si gira leggermente, collocandosi nello spazio sia con la sporgenza delle gambe, sia con il busto che vi si collega mediante la linea obliqua della mano e il passaggio graduale, verso la verticale, dell'avambraccio e del braccio.....”; - (Donatello, San Giorgio, Firenze ) “ Ha la sua radice nell'identificazione stilistica del moto, spazio e saldezza plastica. Lo scudo, oltre a segnare col suo spigolo l'asse della composizione , con l'obliquità delle sue due ali traccia confini sicuri nello spazio alla figura, abbracciandola completamente nella postura delle gambe e, attraverso la spirale avvolgente del manto, afferra ruotando il braccio sinistro per concludersi nel nodo quasi all'altezza della spalla destra.”

Queste citazioni ripropongono l'uomo e lo spazio in una antica dialettica classica dai termini noti: la composta staticità, la dinamica che esprime la continuità del movimento delle figure soggetto nello spazio. “ Il contenuto spaziale della composizione in sintonia con l'accamparsi dinamico del volume , rilancia l'aspetto di una umanità rinata e fieramente armata di nobili ideali più che una immagine emaciata. “ Ma come vengono percepiti questi genuini tentativi di rinnovamento? Nel primo Rinascimento la postura esprime equilibrio e compostezza della figura, recuperando la bellezza Classica. Privilegiati due punti di vista frontale e posteriore: la figura è inserita in un perfetto parallelepipedo. I corpi sono quasi dei solidi geometrici. Nel tardo Rinascimento, l'abbandono dell'equilibrio e la figura tormentata, costruita sullo schema a spirale, moltiplicano i punti di vista. Perciò Il Mercurio del Giambologna anticipa un'identificazione stilistica più moderna: esprime una infinità di punti di vista, la sua struttura visiva è stata definita stellare o raggiata, proprio perché la figura costituisce il punto centrale intorno a cui si può girare ( ricorda Rodin?). L'arte moderna inizia con il negare la frontalità, per cogliere più superfici ( ogni frammento può considerarsi un'opera d'arte? ), sospinti, tutti, a correre intorno alla figura, eliminando definitivamente la visione principale. Ma anche il Barocco mise in campo nuove capacità espressive volte a stupire, che non sarebbero state possibili con la postura classica e senza il rifiuto delle normali linee rettilinee, sostituite dalla spirale, e con il costante ricorso alla linea curva, spezzettata, contorta. Qual'è la differenza? Nella produzione impressionista di Rodin e Rosso si parla del migliore dei punti di vista, quello che riesce a farti apprezzare meglio l'opera e l'artista, elevando persino il singolo frammento ad opera d'arte completa. Con il Barocco, un' opera la si può apprezzare gustando anche singole parti, una volta assimilato l'insieme ( lo stile, la forma, il significato segnico del contesto). L'effetto è la teatralità del Barocco, fondamentale per riacquistare i fedeli e punire i trasgressori: riconquistare quelle verità divine che non è stato possibile dimostrare nella realtà dell'uomo contemporaneo.

Quello che apparenta Rodin e Rosso è il senso della continuità dinamica dello spazio e l'intuizione della luce come mezzo per esprimerla”. Entrambi negano la frontalità: che non è una novità, come abbiamo visto fin dal tardo Rinascimento.

Medardo Rosso impone un rigoroso punto di vista; Rodin vuol essere espressione in tutte le direzioni dello spazio reale.



Poetiche in gioco.



La poetica e la tecnica fondamentale di Michelangelo è che dentro ogni blocco di marmo esistono infinite forme. Michelangelo parte da questa teoria: ciò che deve essere rappresentato esiste già nella mente dell'artista, l'esecuzione consiste nel levare il marmo superfluo: la scultura è quella che si fa' per forza di levare e non di porre. La statua in potenza già vive dentro il blocco. Tecnicamente e poeticamente “il processo creativo Michelangiolesco”, privilegia l'unicità del punto di vista centrale, cavando per piani, arretrando fino a quello posteriore, (in linea con il perfetto parallelepipedo). Si ritorna sull'esempio del San Matteo che tenta di uscire dalla materia con fatica dove tecnica e poetica concorrono insieme. Michelangelo è moderno in tutto: dall'uso della copia, per l'importante esperienza fatta nel “Giardino San Marco” dei Medici ( più simile all'insegnamento delle nostre Accademie e diverso dalle “botteghe” di allora); all'uso delle tecniche. Il punto di vista frontale, la concezione dei piani ( la sommità piana della vasca d'acqua che scende nel suo defluire ), è fondamentale per comprendere tutte quelle tecniche che, mano a mano, porteranno nel Ottocento e oltre all'esplosione di sistemi e tecnologie innovative. Questo processo segnerà sempre di più la tradizione scultoria, moltiplicando l'uso delle copie, caratterizzando l'insegnamento nelle scuole moderne, per imparare le regole e la tradizione. Anche se l'utilizzo del modello, per una migliore riuscita del lavoro, Michelangelo lo considerava più un aiuto dovuto ai suoi allievi. Egli preferiva scolpire d'acchito disegnando direttamente sul blocco, rincorrendo quell'idea, che già preesiste nel marmo, che vive eternamente e che l'artista ha il compito di liberare dalla materia, lottando con essa. Qui, il sentimento è la lotta epocale dell'uomo, in un conflitto irrisolvibile e senza speranza con se stesso; non è il rapporto sereno del Brunelleschi: la virtù della ragione che domina le cose.

Nonostante la critica, è la poesia michelangiolesca che riflette preminente sull'idea dell'arte, sulla “fatica corporale che genera sudore”, sulle tante insoddisfazioni e amarezze: “Non ha l'ottimo artista alcun concetto c'un marmo solo in sé non circoscriva col suo superchio...”. E' quantomeno ingeneroso il giudizio di Leonardo sulla scultura, qualificandola arte meccanicista che genera sudore, quando la scultura, rispetto alle altre è arte di grande ingegno e scienza sublime, tutt'altro che meccanica e rozza.

Dopo la morte di Michelangelo è iniziato un lungo processo di distacco tra modellatore ( cera, argilla) e colui che lavora la pietra, fino al punto di considerare la scultura subordinata al modello che è dell'artista. Una autentica frattura tra invenzione ed esecuzione: un tempo l'artista riassumeva in sé i termini antagonisti di Statuario (l'artista) e scultore (chi scolpisce con lo scalpello: l'artigiano).

Oggi lo scultore è solo il copiatore: un esecutore sempre in ombra e il mestiere ininfluente; così pure l'utilizzo delle tecniche e dei ferri. Ma chi sceglie la materia ed è a contatto con essa? Chi ha consentito di veicolare l'arte, i tutto il mondo, attraverso le innumerevoli riproduzioni?

Pensare la scultura sulla base di un piccolo modello non è la stessa cosa che pensarla in pietra. Oppure si ricorre a modelli uguali al vero. Canova, già dalla tomba di Clemente XIV, introdusse questa innovazione, portando all'estrema perfezione il modello: non più come semplice riferimento, ma guida fedele per la smodellatura. Riservandosi l'ultimo strato di marmo, lasciatogli dalla lavorazione precedente, rifiniva e si riappropriava, portando all'ultimo grado tutto il valore segnico dell'opera e dando una definitiva impronta di sé.

(E' corretto non dimenticarsi di un'altra manualità che interviene immediatamente dopo il puntatore: è uno scultore che, spianando i punti, conduce la scultura all'ultimo grado di rifinitura, lasciando una piccola grossezza di marmo, alla magistralità del tocco di Canova). La manualità dello sbozzatore e smodellatore è importante; certo la direzione dell'artista deve essere presente e il loro concerto appropriato ed affidabile. La realizzazione “dell'idea” non è mai scontata e lineare, per possibili imprevisti insiti nel marmo o le relative difficoltà di lavorazioni. Torna alla mente un frase di Martini: “molti artisti mandano incompiuti modelli in gesso, fidando di trovare, a Carrara, i geni che rimettono a posto le loro magagne”.



LA MATERIA, LE TECNICHE, I FERRI.



E' delittuoso lavorare il marmo e renderlo più brutto di quando era un semplice sasso, e quando al naturale esprimeva qualcosa di più.

Non si può disonorare e maltrattare una materia nobile: snaturarla o snervarla, eccedendo nella pulitura con le smerigliatrici. Le sculture ne soffrono per l'appiattimento ed i loro contorni vengono alterati e insignificanti. I costi di mercato costringono a comprimere il fattore tempo, facendo si che si avvii una produzione industriale e/o commerciale di brutte sculture. Così il ricorso ad una lavorazione industriale rapida ( quanto squallore nell'arte funeraria! ), per le tecniche usate, elimina o rinnega il vero linguaggio della scultura. Un altro dileggio: non si comprendere perché il primo “Bischero” che capita a Carrara, carico di soldi e di raccomandazioni più che di “illuminate idee”, lo si debba osannare e super gratificare, e non si possa, cambiando referente, organizzare e finanziare la gloriosa tradizione scultorea Carrarese.

Le tecniche e l'uso dei ferri debbono, non solo essere appropriate , personalizzate e ideate sul campo alla bisogna, secondo il lavoro da farsi; ma anche tener di conto della qualità del materiale rispetto alla sua durezza e lavorabilità.

Questo ci ha insegnato il Canova che portava a perfezione la rifinitura, consapevole che la sua tecnica espressiva era cominciata da una eccellente qualità del materiale, dalla perfezione della smodellatura, da tecniche innovative sul finito , compresa la lustratura. Per avere una idea dell'affezione del Canova verso la scultura, pensiamo a questo : – intanto la cosiddetta ultima mano era tutt'altro che un sigillo formale; - spesso, lasciava e riprendeva il lavoro dopo un lasso di tempo, iniziando una rifinitura particolare: al lume di candela, per attuare quelle affettuosità delle superfici, studiandone i trapassi delle ombre e delle luci proiettate dall'alto, considerando l'opportunità delle rugosità e riflessi da armonizzare con le tracce dei ferri o da lasciare all'opera del lustratore. Da considerare che tutte queste osservazioni e precisazioni erano già state anticipate nello studio del modello in gesso portato al vero .

Non sembrino meticolosità inutili, la pedante descrizione della luce di taglio dall'alto, che simile a quella degli scuri laterali (luce radente) evidenzia rugosità indisponenti. Nessuno si allarmi oltre il dovuto, perché anche questo effetto indotto ci consente da una parte l'apprezzamento del marmo e il suo essere trasparente, brillante e carnicino; dall'altra, per tracciare e lasciare segni voluti e sentiti, facendo apprezzare anche i più impercettibili elementi di uno stile: la stessa verosimiglianza della pelle ha integrato l'idealizzazione dell'arte greca. “ Fra i diversi marmi che si estraggono dalle cave di Carrara il più prezioso senza dubbio è quello detto volgarmente statuario bianco. A fronte che assai densa ne sia la materia e grave il peso, ciò nondimeno la sua omogeneità, candidezza, traslucidezza, e pulimento armonizzandosi con la diafaneità dell'atmosfera lo rendono atto più di qualsiasi altra sostanza a rappresentare la leggerezza, e le forme quasi aeree di quegli esseri mitologici ed eroici, i quali si costumò essere celesti. Le statue di marmi coloriti e di metallo sono belle per convenzione ( il diaspro, il basalto, il bronzo), ma pesanti e compresse verso il suolo..... Apollo, Diana, Ebe, Mercurio nel sortire sotto lo scalpello dal bianco masso marmoreo non molto differiscono da quelle stesse divinità, sporgenti dalla nube alla voce di Omero per manifestarsi ai mortali.” ( Eman.le Repetti). Ombre, pieghe, semi trasparenze, il rosato della carne viva (qualità proprie del buon statuario), pongono gli scultori alla pari dei coloristi e dei pittori . Essi infatti si servono di tutte le risorse del rilievo: luce (forte) con ombre tenue si alternano quando non si coniugano in una sinfonia. Il colore è come il fare del bel modellato: veri passaggi, varie texture, e infine il linguaggio liberatorio del “non finito”, non solo dalla materia, ma anche dalla perfezione di un modello: per ciò che il compiuto è immutabile in contrasto con l'incompiuto che si apre ad infinite possibilità di soluzione;a qualità infinite, impreviste (Michelangelo).



ANALISI PARTICOLARI



Figure Intermedie

Non è di troppo neppure l'analisi e lo studio delle cosiddette figure intermedie ( singole attività lavorative parcellizzate ). Ciò che più ha fatto disgustare, anche per gli eccessi non virtuosi, il marmo di Carrara è l'abilità, o meglio l'insufficiente abilità, a ripetere, di mestieranti/specialisti: un lavoro industriale che ha suddiviso varie parti della scultura; mani, piedi, volti ( estremità curate dallo scultore); le vesti (pannista), fiori, capelli, ornamenti vari ( ornatista ). Allo scalpellino gli elementi architettonici ( capitelli, basi, ecc). Questi sono alcuni indicativi elementi di parcellizzazione che hanno disaffezionato nell'apprezzare le qualità vere del marmo, che piuttosto richiede più armonia nella lavorazione e originalità nelle espressioni: come ad esempio nella postura della figura, nel taglio e caduta delle pieghe, nelle tecniche dell'impasto come nella rifinitura. Insomma, è mancata la cultura della tradizione, quella preziosissima dei maestri delle botteghe carraresi, insieme al deperire di ogni apporto scolastico. Cosicché i manichini nelle loro rotondità asettiche e legnose sono meglio formati e vestiti.





Il Marmo.

La qualità del marmo non può prescindere: dalla lucentezza, pastosità, gradevolezza, sensibilità e trasparenza. Un marmo che sia anche consenziente: cioè suscettibile di ottimo pulimento e di plasticità notevoli e surreali. Tutto ciò è reale: un marmo la cui pasta finissima e tenace si presta ai lavori di scultura e di ornato, per i lavori più finissimi e delicati; che sia resistente agli stacchi e può tirarsi a capello, se vogliamo ricorre ad una espressione gergale.

Occorre aver respirato l'aria delle nostre cave, assaporato le sue abitudini lavorative, i suoi richiami, visto i camminamenti sui ravaneti, per assaporare quella tradizione che pregna di sé ogni atto e modi di dire, per intuire quanto questa identità possa aver influito, in passato, sulla produzione artistica e scultoria. Insomma il marmo è tante cose della nostra tradizione: nei termini dialettali come nell'esprimere con una certa durezza atteggiamenti. Sembra la nostra indole somigliante a quel marmo che tanti momenti avversi della nostra vita ha rappresentato: in sintonia con le sue sorti altalenanti, i suoi difetti e imprevisti. Sentirlo dentro di se', il marmo, lo si trova più docile e consenziente, soprattutto nello scolpire: una disposizione d'animo sensibile è importante e si colloca in armonia con un materiale prezioso e buono. Avversarlo lo rende ostile e caparbio: resistentissimo alla ottusità dei colpi mal diretti, non coordinati. Dal cattivo suono materico , con il ferro che via via si fa' più bolso, si evince la contrarietà del materiale all'insensibilità più che all'imperizia. L'artista, dal tocco malevole, che maltratta l'armonia degli strumenti, con eccessiva pesantezza di mano, non coglie alcun risultato propostosi, bensì il suo contrario. Non sente “il rude” che ben non iscaglia, con i colpi dati alla cieca pesantemente. Non sente che il suono non è ritmato e non segue trame ordinatamente dirette? Alla gradevolezza del suono ritmato corrisponde un marmo arrendevole e un tessuto omogeneo tracciato dal ferro. La forza va' calibrata, mentre i colpi possono essere virtuosi. Con il martello pneumatico occorre una mano miracolosa che sa' prendere il verso e deve esercitare una giusta pressione, tale da consentire al ferro di mangiare il marmo statuario gradualmente, o di penetrare segnando dolcemente quei passaggi di subbia, gradine, scalpello tagliente, e consentire al marmo di prendere lodevoli forme e tramare. Insulso anche l'uso, mortificante, di portare la superficie della scultura tirata a lucido, ad ogni costo, fino a far scomparire ogni traccia della lavorazione , che è la conseguenza del modo in cui ci si avvicina all'impasto della forma e alla texture desiderata.

Va recuperato tutto il mestiere, altrimenti rischia di isterilirsi: il praticantato nelle botteghe e nelle scuole è importante, perché vi è una osservazione diretta su tutte le fasi delle lavorazioni; occorre rispettare tutti i passaggi del modellare, le scorciatoie sono dannose, come impuntare eccessivamente il ferro, tagliare e trapanare in profondità. Il lavoro deve poter emergere gradualmente dalla materia, quasi liberandosene, sfruttando la scala dei piani e, mano a mano che si rendono più visibili le parti più sporgenti, parimenti, dar corpo da un lato e dall'altro, all'immagine già realizzata, completandola. La scalpellata deve essere lunga ed a correre, altrimenti le pestature e le scalette comprometteranno alcune parti dell'opera. E' impensabile spianarle con le macchine abrasive per porre rimedio ad un marmo irrimediabilmente squamato. Anche l'uso delle raspe e degli smerigli non può essere né anticipato né abusato eccessivamente nella rifinitura: ne l'un caso si pasticcia solamente; nell'altro si toglie incisività al segno ed i contorni perdono forza, mentre i chiaro scuri scemano nell'inespressività, afflosciandosi. Volendo attutire le asperità della pelle del marmo, negli incavi, è consigliabile strofinarlo con sabbia di mare, che non è purgarlo, perché, il termine, nel linguaggio carrarese ha il significato più di una operazione fatta anticipatamente e in profondità.





L'Anima.

Nulla può essere lasciato al caso: la scultura deve poter aver un'anima che è la spiritualità dello scultore, il senso e l'espressività della sua personalità: non altro. Perciò nulla è lasciato al caso: non lo è la plasticità, in omaggio alla quale alcune parti si debbono considerare in rilievo rispetto ad altre più scavate; perciò va' stimato quale armonia riservare a ciò che deve essere lasciato in piena luce, dandogli più o meno forza e ombra; e quali altri risalti dare agli effetti di superficie, con una linea più morbida e delicata, oppure rimarcarne le tracce e tormentando le stesse linee con profondi scuri, spezzandole.

Ritornando alla diatriba iniziale tra l'ideatore (artista) e l'esecutore (scultore), entrambi sono obbligati ad incontrarsi a un preciso crocevia: il requisito fondamentale di un opera è che deve corrispondere all'idea per la quale è stata concepita, o a qualsivoglia soggetto, somiglianza o rappresentanza per la qual cosa essa è stata pensata e originata. E' fondamentale, la casualità non può essere una scappatoia: affinché il tutto non si possa giustificare, banalmente, con il tanto triste “non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace”; infatti un segno in libera uscita può essere qualsiasi cosa o qualsiasi processo di identificazione; oppure perché si vende bene nel variegato mondo del “politicamente corretto”. L'artista gode di un ottima pubblicità e consenso? Bene. Ne ha tutto il diritto se ha anche un buon conto in banca oltre che amicizie potenti. E l'arte, beh! l'arte è un altra cosa.



UN PUNTO DI VISTA DIVERSO



Quante sculture sono concepite con un unico punto di vista, frontale o laterale, il buon senso ci induce a pensare che ciò dipenda dalla loro funzione o significato; dallo spazio che si voluto occupare o corredare. Perciò è ingiusto negare la validità di un solo punto di vista, che lascia le altre parti in ombra; oppure la possibilità di esprimere il dinamismo come un prolungamento di continuità nello spazio, attraverso una sequenza stilistica. Si pensi anche alla funzione ancillare rispetto alla architettura e al suo uso modulare, ritmico, o di supporto (cariatidi). Il problema di uno scultore è quello del rapporto con l'ambiente, di organizzare una collocazione e farla vivere ed essere protagonista in quel determinato spazio. Spesso gran parte della figura sono nascoste alla vista: la parte posteriore, se collocate in una nicchia, non è neppur rifinita; la stessa cosa avviene per la loro collocazione nelle facciate delle chiese e dei palazzi, ma anche negli stessi ambienti interni. Perciò lo studio del posizionamento dell'opera non può che seguire un preciso significato, anche coreografico, se desideriamo progettare altri punti di vista. Non dimentichiamoci della luce, sempre determinante nella scultura, il cui protagonismo e la gamma di gradazioni meritano uno studio attento e non superficiale, essendo il principale artefice con il precipuo compito di modellare, definitivamente, la struttura delle superfici, scivolando o incuneandosi dentro esse. Va da sé che ogni scelta soggettiva è la più efficace, ma non quando si vuole stupire in ogni modo e in mille modi insignificanti, spacciandoli per le nuove frontiere espressive. La questione, sempre, attiene alla progettazione, stile e funzioni attribuite all'opera. E forse anche la committenza avrà, con diritto, dato indicazioni.

Nel merito, osserviamo la bellezza classica del Davide di Michelangelo, anche qui la critica si sofferma sull'eroico simbolo esclusivamente attraverso una visione frontale: “la figura gigantesca è tesa, concentrata, compressa come un elastico che accumula tensione per poi liberarla in un solo gesto, nella statua ancora implicito”. Segue la descrizione su di un movimento imminente, in potenza, che sta per esplodere; ma tutta la descrizione si sofferma sulle parti anatomiche anteriori (frontali).

Il senso poetico è compiuto, anche se in ombra il posteriore, ben fatto, completa il capolavoro senza la benché minima stonatura. Infatti, il Davide è il simbolo della repubblica fiorentina. Ciò conferma le osservazioni sulle funzioni soggettive della figura e sui diversi modi di organizzare lo spazio e, conseguentemente, sulla scelta del punto di vista: quando si trattò di trovargli una collocazione, Leonardo propose la nicchia all'interno della Loggia della Signoria; mentre Michelangelo e la commissione proposero il piano di appoggio del grande muro del palazzo nella stessa piazza.

La questione della scelta del punto di vista attiene più ai proponimenti progettuali e ideali e non può essere affatto occasionale; certamente può corrispondere, semplicemente, a una scelta estetica o modulare, eppure anche in questo caso esprime un senso compiuto.

Non è possibile dimenticate il tema del “non finito” di Michelangelo: la tecnica eccelsa che diventa essa stessa linguaggio e poesia, nei modi del plasmare, nei passaggi gustosissime tracciati dai differenti ferri. Così è, almeno per chi ama la scultura, quella vera. Sul problema del non finito, di Michelangelo, occorre operare una distinzione, nel contesto delle opere non portate a termine: tra quelle incompiute per cause accidentali da quelle effettivamente non finite, ma poeticamente concluse in maniera definitiva per volontà dell'artista. Per alcuni critici, “ l'improvviso arresto del lavoro è stato causato dalla soddisfazione di aver raggiunto il termine della propria visione, che in questa tecnica vedeva il completamento supremo della propria opera”. Ma quanto è bello il contrasto plastico tra le parti abbozzate e quelle finite!, se improntate da mani virtuose; e quanto movimento esprime una forma che levitando tenta di liberarsi dal blocco. C'è chi, invece, apprezza “ la maggiore espressione di pathos che balza da una sintesi estremamente rapida e ardita”. “Da parte sua l'ARU dava nuova validità alla tesi celliniana dell'unicità di visione per cui, Michelangelo si sarebbe, nella sua pratica di scolpire “per forza di levare”, fermato allorché, nel processo in cui la scultura prende forma a poco a poco, la sua eccellenza plastica sarebbe stata attenuata dalla creazione di altri punti di vista”.

In definitiva, nella pratica di scolpire, Michelangelo avrebbe privilegiato l'unicità del punto di vista frontale ( secondario il posteriore e tutti gli altri ).

Ma, questa visione è, grossomodo, in sintonia con la tecnica dell'arretramento del piano anteriore ( di partenza o inizio lavoro ), verso altri piani, rendendo mano a mano visibili le parti più sporgenti, che saranno rifinite, in contrasto con la materia che tiene prigioniera l'immagine.

Michelangelo, alla pari o ancor più dei grandi artisti carraresi, conosceva il verso del marmo che è il segreto con cui i cavatori, a colpi di mazza decisi e sicuri, sbozzavano l'opera. Entrambi possedevano la magica capacità di liberare dal blocco meravigliose sculture. Un illustre visitatore così dipinse il carattere dei carraresi: “ la loro indole è assai somigliante al bel marmo in mezzo al quale sono nati; la materia ne è preziosa e buona, renitente bensì ai colpi mal diretti, ma altrettanto suscettibile di prestarsi alle più lodevoli forme sotto la mano, che ne sa' prendere il verso” ( E. Repetti).



I CARATTERI CHIMICI DEL MARMO



I caratteri chimici dei marmi risultano composti dalla loro composizione mineralogica.....I calcari, detti puri, sono costituiti da carbonato di calcio a cui si associa sempre una quantità più o meno grande di carbonato di magnesio......Questi marmi sono tanto più facilmente attaccabili dagli acidi quanto minor quantità di magnesio contengono. Si sciolgono nell'acido cloridrico ordinario o diluito a caldo. Siccome non sono mai puri, lasciano sempre un residuo insolubile dovuto a varie sostanze: al carbonato di magnesia è meccanicamente mescolato una quantità variabile di sostanze argillose (caolino) che rimane insolubile. Una parte importante di detti marmi appartiene ai calcari marnosi”.

L'esempio che segue inerente alla lavorazione del marmo non è di quelli calzanti; ma in senso lato chiaro e pratico. “ Riportiamo qui come si fanno le mine, alla francese, nella lavorazione ordinaria, quando si vogliono staccare grandi blocchi. Descriviamo esclusivamente come si ricava la cavità da riempire con la polvere esplodente. Siamo interessati, esclusivamente, al solo processo di scioglimento del marmo, traendo partito dalla proprietà che hanno gli acidi (Muriatico) di scomporre il carbonato di calcio: nell'esempio delle mine menzionate, vien fatto un foro con il trapano e successivamente, dovendo allargarlo, vi si versa, con un tubo di gomma, l'acido , il quale attaccando il marmo fa' sviluppare l'acido carbonico e forma poi del cloruro di calcio solubile, che può essere prosciugato e tolto. Si viene a formare una tasca per la polvere esplodente”. Lo scultore non ha certo bisogno di far esplodere delle mine, ma di utilizzare un processo simile per scavare in profondità e rilevare stacchi delicati senza far danni.



Acido cloridrico.

Non sempre il ferro è sufficiente per l'intaglio, fosse anche ricurvo e ben forgiato, in tal guisa da poter penetrare dentro inaccessibili sotto squadri o trafori nelle profondità del marmo; e neppure fresette smerigliate, anch'esse sagomate all'uopo, possono essere determinanti per delicatissimi stacchi. In questi casi si ricorre all'acido: con le dovute cautele si intinge un pennello, delle dimensioni adeguate, nell'acido e si passa ripetutamente sulle parti da eliminare; poi si lascia riposare e ponendo la massima attenzione sulla quantità di materia da asportare, si smette quando si è tolta quella grossezza che è ritenuta sufficiente. Indi, si annaffia abbondantemente la parte coperta dall'acido, ben lavandola e badando che l'effetto della formazione del cloruro di calcio solubile sia concluso e che tutto è stato prosciugato.



EQUILIBRIO DEL CORPO UMANO



La Ponderatio.

Nell'arte Egizia, Assira e Greca primitiva tutte le figure posavano i piedi simmetricamente allineati. La linea di gravità cadeva in mezzo ad essi. E' merito di Policleto (V secolo A.C.) la posizione naturale di equilibrio, detta della gamba libera, la quale concludeva le ricerche delle sculture arcaiche (Koùros). Policleto, oltre al canone (il trattato sulle giuste proporzioni), eseguì il Doriforo detto appunto Kànon che è la dimostrazione visiva del suo trattato nell'illustrare bene i principi della ponderazione ( la precisa distribuzione del peso nella posizione verticale asimmetrica ). La figura non è più sostenuta dalle due gambe, ma poggia su una sola, la destra, detta portante o tesa, sulla quale grava tutto il peso. Mentre la sinistra detta flessa o libera, leggermente arretrata, bilancia il corpo, posando in terra, senza compiere sforzo, solo le dita del piede”.

Da questa posizione naturale di riposo, mantenendo l'equilibrio prevalentemente sopra un solo piede, la linea di gravità scende lungo l'arto destro; ne nasce una diversa articolazione delle parti superiori del corpo: il bacino è inclinato scendendo sulla gamba flessa, invece il torso, riequilibrando, volge in senso opposto seguendo la linea delle spalle, che è inclinata. Il braccio destro è libero, mentre è portante quello sinistro e il collo e la testa piegheranno verso destra. Sono una serie di relazioni, quelle inverse della gambe e delle braccia, che danno luogo ad una struttura armonica (determinata da un incrocio a X detto chiasmo). La gamba sinistra è a riposo come il braccio destro, mentre la gamba destra è portante come il braccio sinistro che tiene la lancia. E' un sapiente gioco di rapporti detto ponderazione perciò immutabile: il Doriforo rappresenta un modello di equilibrio che rappresenta l'ideale greco di coerenza razionale; insomma l'ideale di perfetta proporzionalità”.



STATICA



Quando una scultura è sbilanciata rispetto al suo centro di gravità, si dice che non pianta, poiché la sua posizione è errata e fa' l'effetto di cadere da una parte o dall'altra. Nel posizionare una statua, gli scalpellini sono particolarmente accorti nell'intaglio della base (piedistallo). Solitamente, nel metterla nella posizione eretta, utilizzano, per la perpendicolare il filo a piombo e la livella: lo scopo è quello di segnare, nella base di appoggio, a mo' dei praticanti, la linea di un equilibrio stabile, partendo, in alto, dalla fossetta giugulare verso il basso. Detta fossetta, seguendo una esperienza tramandata, rappresenta il punto di corrispondenza nel quale va' posto il filo, la linea a piombo deve cadere, sempre, sul piano trapezoidale costituito nella base di appoggio dalla posizione dei piedi. “ Sappiamo: - che il centro di gravità o baricentro di un corpo è il punto sul quale si bilanciano, da tutti i lati, le parti del corpo stesso, ed è la zona più grande e pesante; - che la linea di gravità è una perpendicolare tracciata da questo punto al suolo”. Abbiamo osservato che nella stazione eretta simmetrica questa cade in mezzo ai due piedi. “Si utilizza il filo a piombo come linea di riferimento (linea a piombo)... perché rappresenta uno standard che si basa sulla legge naturale di gravità e ci permette di utilizzarla”. Perciò vanno seguite alcune posizioni mediante le quali si compie il passaggio dalla stazione eretta simmetrica alla stazione eretta asimmetrica. In ogni posizioni asimmetriche, il divaricarsi delle gambe produce un inclinarsi del bacino e un conseguente spostamento del tronco per riportare la linea di gravità sulla base di sostegno. La linea del filo a piombo per seguire tali spostamenti deve fissarsi su un punto preciso: crediamo sia quello della gamba portante o tesa, puntando direttamente il filo in corrispondenza del malleolo mediale della tibia. “ Nella posizione eretta il baricentro cade a livello della 3^ vertebra sacrale. L'asse del corpo è ortogonale a quello trasversale, che collega le articolazioni dell'anca e la loro intersezione avviene a livello della 3^ vertebra sacrale. L'asse del corpo interseca, inoltre, l'asse trasversale delle articolazioni del ginocchio e quello tibio - astragalica. Riferendoci alla statica umana, il corpo, nella postura verticale, ha la necessità fisica di far cadere il baricentro del peso corporeo su un piano trapezoidale, costituito dalla posizione dei due piedi con i talloni ravvicinati e le piante leggermente divaricate. Tale piano viene definito base di appoggio, e si ottiene unendo i punti di contatto del corpo con il suolo: la stabilità di un corpo sarà tanto migliore quanto più la base di appoggio sarà grande e il suo centro di gravità sarà basso. ( Spesso, gli artigiani utilizzano anche un piccolo accorgimento: secondo alcuni atteggiamenti, danno alla statua pochi millimetri di leggera pendenza in avanti, poiché la tradizione suggerisce che adottando una perfetta perpendicolarità, si ha la sensazione che la figura cada all'indietro). Naturalmente, dobbiamo confrontarci con diversi atteggiamenti: ad ogni figura appartiene una propria postura e un diverso punto di vista, con il cambiare delle posizioni e collocazioni. Permane una regola immutabile: “nei vari spostamenti, simmetrico e/o asimmetrico, cambiare la posizione anche di una sola delle parti del corpo, significherebbe cambiare, contemporaneamente, tutte le altre, fino a raggiungere un nuovo equilibrio”.

L'equilibrio raggiunto da Policleto, detto ponderazione, è un equilibrio stabile, ottenuto con un gioco sapiente di rapporti. C'è dunque una serie di relazioni, la più evidente è quella, inversa, delle gambe e delle braccia”. “Se la gamba destra è portante, sostiene tutto il peso, il bacino è inclinato scendendo verso la gamba libera, di convesso il tronco per contenere tale spostamento, e per riportare la linea di gravità sul piede destro, si inclina lateralmente dal lato opposto, producendo una linea concava verso destra. Il centro di gravità è sempre in un punto all'interno dei piedi. Nell'esempio detto, è più aderente alla gamba tesa e coincidente con l'interno del piede di appoggio”.